26 ottobre 2007

Casa dolce casa

C'era una volta quello che mi voleva affittare camera sua e voleva andare a dormire in uno stanzino minuscolo. C'erano quelli che non parlavano inglese. C'era la tipa che, con il suo macchinone e i suoi gioielli, mi ha fatto illudere che il posto fosse qualcosa di meglio di un garage buio sul retro di una casa. C'era quello che lo stava ancora ristrutturando, ma che una volta completo sarebbe stato bellissimo. Ce n'era uno con una vista incredibile sulla baia, ma assolutamente vuoto. E caro. C'era la stanza di Moriya, che se l'avessi presa forse non sarebbe stato poi così male. C'erano le due matricole che cercavano un terzo per dividere le spese. C'era Boraz, ricchissimo bastardo che non si è fatto più sentire. C'era il mitico Doron, che mi ha invitato a pranzo prima di mostrarmi l'appartamento. C'erano quelli, ed erano molti, che per meno di 12 mesi non se ne parla. E infine c'erano Eran e Shaha, ai quali mi è dispiaciuto dire di no.


E' stata una lunga ricerca, con momenti tendenti asintoticamente alla disperazione, ma anche con situazioni divertenti e paradossali. Ho girato Haifa in lungo e in largo e ho conosciuto meglio i suoi quartieri. Ora conosco i nomi delle vie e non mi perdo (quasi) più. Ho conosciuto persone così disponibili a capire la mia situazione di studente all'estero per sei mesi, con nessuna conoscenza dell'ebraico, non particolarmente ricco, che per Natale quasi quasi gli brucerei la macchina, brutti figli di puttana. Ho conosciuto però anche delle persone stupende, che con ogni probabilità diventeranno amici, e nei loro sorrisi sinceri leggo la voglia di incontrare la mia cultura e ascoltare quello che ho da raccontare.

E poi sono comparsi Tomi e Anna e ho capito che finalmente avrei avuto una casa. Una stanza tutta mia. Senza la vista mozzafiato che avevo fin'ora, ma in compenso nel quartiere più bello di Haifa, più vicino all'università rispetto a prima, a due passi da Kikar Sefer, la piazza attorno alla quale si trovano numerosi bar e ristoranti, uno dei centri della vita notturna. Ho la connessione ad internet e la lavatrice (mia vera preoccupazione di queste settimane) e un po' alla volta riuscirò a personalizzare questo mio spazio. Qualcuno può prestarmi un tavolo?

Dei miei coinquilini vi parlo un'altra volta. La prima impressione è ottima ma prima di buttarmi in giudizi spassionati preferisco aspettare qualche giorno. Vi dico solo che sono di Budapest e come me si fermeranno qui fino alla fine di febbraio. Loro fanno parte della International School e hanno già un giro di amicizie non guasta assolutamente. Ieri sera eravamo ad una festa a casa di una loro amica. C'erano ungheresi, spagnoli, un polacco, un canadese, un paio di israeliani, una tedesca, una danese, e il sottoscritto munito di bottiglia di birra goldstar da 0,50. Ho la vaga sensazione che tutto ciò mi ricordi qualcosa...

15 ottobre 2007

Piccole abitudini quotidiane

Inutile negarlo, nonostante le mille piccole differenze tra lo stile di vita italiano e quello israeliano, rimango pur sempre un italiano all'estero e quindi cerco di non negarmi alcuni "fondamentali" quotidiani dell'italian way of life. Primo tra tutti il caffè dopo pranzo. Le mie abitudini alimentari si stanno piano piano adattando alla cucina locale. Comincio ad apprezzare i cibi della mensa anche se alle volte scelgo delle combinazioni di pietanze che sorprendono chi mi sta servendo; mi guardano con una faccia come per dire: contento tu. Altre volte invece, dopo aver riempito il piatto con varie cose, raggiungendo una quantità soddifacente di cibo, mi viene chiesto: "Tutto qui? Sicuro che non mangi altro?". Da un lato mi sento ferito nel mio orgoglio di mangione senza fondo, dall'altro faccio la figura di chi vuole mantenere un contegno (vista la pancia) e me ne vado al mio tavolo con il vassoio in mano ridacchiando sotto i baffi...

Ma veniamo al caffè. Le paroline magiche sono: Ahad espresso, katzar, b'vakashà. Ormai ordino il mio caffè in ebraico (quasi) con disinvoltura e un po' alla volta le cameriere del Greg Café (a detta di tutti il miglior bar dell'università) hanno capito che quando dico ristretto (katzar = corto) intendo dire mooolto ristretto. Con un meccanismo di prove ed errori sono riuscito ad ottenere un caffè molto simile a quello italiano. Ogni giorno prendo la mia tazzina e mi siedo ad uno dei tavolini esterni del Greg, sotto il porticato dell'università. Tutto questo ha una sua evidente ritualità alla quale mi risulta difficile rinunciare. Sono solo cinque minuti ai quali però non viene attribuito da parte degli israeliani lo stesso valore che hanno per me. Spesso quindi sono da solo. Ma almeno in questo piccolo rito, la solitudine non mi dispiace affatto. Come John Goodman ne Il Grande Lebowski: "Io resto qui, a bere il mio caffè, a gustare il mio caffè...".

06 ottobre 2007

Risponditi da solo, hai tutti gli elementi per farlo...

Con la sua frase per me più famosa, voglio ricordare la prof. Paola Montanari, mia insegnante di matematica al liceo che se ne è andata in questi giorni. Di lei mi ricordo le camicette a fiorellini, il modo in cui reggeva il registro mentre entrava in classe e i suoi modi educati e materni. Di me ricordo l'incorreggibile disordine mentale (che tutt'ora persiste), il quaderno di matematica fatto di fogli sparsi e la paura delle sue interrogazioni. E c'è ancora chi puntualmente mi ricorda che le formule di prostaferesi noi non le abbiamo mai studiate, ma che in fondo i miei problemi avrei potuto risolverli anche in altro modo. Dopotutto, ho tutti gli elementi per farlo.

Arrivederci Prof.

Alberto